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Ritratto fotografico di Simone Weil |
La misericordia di
Dio si manifesta nella sventura come nella gioia, allo stesso titolo e forse
anche di più, perché sotto questo aspetto non ha nulla di analogo fra gli
uomini. La misericordia umana appare soltanto nel dare gioia, oppure
nell'infliggere un dolore con l'intento di ottenere effetti esteriori, come la
guarigione del corpo o l'educazione. Ma non sono gli effetti esteriori della
sventura che testimoniano la misericordia divina. Gli effetti esteriori della
vera sventura sono quasi sempre cattivi e, quando li si vuol dissimulare, si
mente. Ma è proprio nella sventura che risplende la misericordia di Dio; nel
profondo, nel centro della sua inconsolabile amarezza. Se perseverando
nell'amore si cade fino al punto in cui l'anima non può più trattenere il
grido: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?», se si rimane in quel punto senza
cessare di amare, si finisce col toccare qualcosa che non è più la sventura,
che non è la gioia, ma è l'essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile,
comune alla gioia e alla sofferenza, cioè l'amore stesso di Dio.
A quel punto si
comprende che la gioia è la dolcezza del contatto con l'amore di Dio,
che la sventura è la ferita del contatto stesso, quando esso è doloroso, e che
ciò che importa è solo questo contatto, non il modo in cui avviene.
Così, quando
rivediamo un essere caro dopo una lunga assenza, non importano le parole che
scambiamo con lui ma soltanto il suono della sua voce, che ci assicura della
sua presenza.
Il fatto di sapere
che Dio è presente non consola, non toglie nulla alla spaventevole amarezza
della sventura, non guarisce la mutilazione dell'anima. Ma sappiamo con
certezza che l'amore di Dio per noi è la sostanza stessa di questa amarezza e
di questa mutilazione. Per gratitudine
vorrei essere capace di lasciarne una testimonianza.
Quand'anche per noi
non ci fosse altro che la vita terrena, quand'anche il momento della morte non
ci portasse nulla di nuovo, la sovrabbondanza infinita della misericordia
divina è già quaggiù segretamente presente, tutta intera.
Se, per ipotesi
assurda, morissi senza aver mai commesso gravi colpe e tuttavia al momento
della morte cadessi in fondo all'inferno, sarei ugualmente debitrice verso
Dio di una gratitudine infinita per la sua infinita misericordia proprio per
la mia vita terrena, e questo sebbene io sia un oggetto così mal riuscito.
Anche in questa ipotesi penserei ugualmente di aver ricevuto dalla ricchezza
della misericordia divina tutta la mia parte, poiché già in questo mondo
riceviamo la capacità di amare Dio, di rappresentarcelo con tutta certezza,
come avente per sostanza la gioia reale, eterna, perfetta e infinita. Anche se
velati dalla carne, riceviamo dall'alto presentimenti di eternità sufficienti
a cancellare ogni dubbio a questo proposito.
Che cosa chiedere e
desiderare di più? Una madre, una donna che ama, se ha la certezza che suo
figlio o la persona amata è nella gioia, non sente in cuor suo il pensiero di
chiedere, di desiderare altra cosa. Noi abbiamo molto di più: ciò che amiamo
è la gioia perfetta stessa. Quando lo sappiamo, perfino la speranza diviene
inutile e senza senso. La sola cosa che resta da sperare è la grazia di non
disobbedire quaggiù. Il resto spetta a Dio e non riguarda noi.
Per questo non mi
manca nulla, sebbene la mia immaginazione, mutilata da una sofferenza troppo
lunga e ininterrotta, non possa concepire la salvezza come qualcosa di
possibile per me.
Sono abbastanza
consapevole della mia miserabile debolezza per supporre che un poco di sorte
avversa basterebbe a colmare di sofferenza la mia anima al punto da non
lasciare spazio in essa, per molto tempo, per i pensieri che vi ho espressi
ora. Ma anche questo importa poco. La certezza non risente degli stati d'animo:
la certezza è sempre perfettamente al sicuro.
C'è soltanto
un'occasione nella quale veramente smarrisco questa certezza: quando incontro
la sventura altrui, anche quella di chi mi è indifferente, di chi mi è
sconosciuto (e forse persino di più), compresa la sventura dei secoli passati,
anche dei più lontani. Questo contatto mi procura un male così atroce, mi
trafigge talmente l'anima da parte a parte, che per qualche tempo amare Dio mi
diventa quasi impossibile.
26 maggio 1942 [da Casablanca]
(tratto
da: Simone Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1984)